«Chiunque tu sia… io dipendo sempre dalla gentilezza degli sconosciuti»
Blanche Du Bois in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Wlliams
Forse siamo tutti soggetti a uno strano bias: ci sono cose che troviamo fastidiose quando le fanno gli altri e che invece ci sembrano stupende quando le facciamo in prima persona.
Instagram è un’app per cellulari, comprata da Facebook un anno fa, che viene pubblicizzata come un modo “veloce, bello e divertente per condividere la tua vita con amici e familiari”, e 150 milioni di utenti nel mondo eseguono il compito scrupolosamente.
E questo video, che ha ottenuto il ragguardevole risultato di oltre 5 milioni di visualizzazioni in meno di un anno, realizzato su commissione di CollegeHumor Media – un seguitissimo generatore di contenuti su internet – con la regia di Matthew Pollock e la colonna sonora tratta da un pezzo famoso dei Nickelback su cui gli autori hanno scritto ad hoc un testo parodistico, sintetizza in modo magistrale gli usi che questo esercito di utenti fa dell’applicazione.
Amanti del cibo, del trucco, persone in vacanza (casualmente con seni in primo piano), reportage minuto per minuto di azioni quotidiane, pretese foto artistiche, autoscatti, panorami, scorci… foto tutte accomunate dall’uso dei filtri e dall’ansia di essere guardati.
A questo proposito, a 2.33’ del video si può vedere un’iperbole della documentazione – non così fuori del comune, in verità -: c’è un tizio in background che fotografa il tizio che in primo piano sta fotografando il tortino alla pesca.
“Se è sul mio feed è garantito che avrò almeno 5 Mi piace” dice la canzone, e la determinazione ad ottenerli (da chi?) è talmente forte da far sì che invece di vivere gli eventi emozionanti in prima persona ci si ritrovi a smanettare con l’applicazione per immortalarli.
Il “mi piace” e il “condividi” su Facebook sono delle modalità di semplice utilizzo attraverso le quali chi pubblica può sentirsi gratificato perché riceve l’apprezzamento degli altri per i propri contenuti e una conferma che sono stati visti.
Ci si può chiedere allora, fuori da ogni moralismo nel giudicare la tecnologia ormai a disposizione di tutti, come mai questi comportamenti siano così diffusi, che cosa significhi essere guardati e quale possa essere l’ansia sottostante.
Si potrebbe pensare che i social network funzionino da specchio, e che come tali riflettano la nostra immagine. Ma “riflettere” ha un duplice significato: oltre all’offrire un’immagine di sé, rimanda anche all’impegnarsi a pensare, trovare o ritrovare la propria identità.
Che funzione svolgono allora i social network? Forse i fondatori non l’hanno mai pensato consapevolmente ma si potrebbe pensare che alla base di questo utilizzo imponente, mondiale e trasversale vi sia un nodo di importanza essenziale per ogni essere umano: l’identità.
Cercare di vedersi come si è veramente attraverso lo sguardo degli altri, oppure di costruirsi un’identità validata dallo sguardo altrui sono processi normali nella vita di relazione, ed è qualcosa di cui l’essere umano ha bisogno.
Forse questo uso intensivo della tecnologia può dirci qualcosa di più rispetto all’intensità del bisogno latente di essere visti e riconosciuti, delle ansie che percorrono il nostro tempo ma anche della capacità creativa dell’essere umano di utilizzare ciò che è a sua disposizione per contenerle e vivere meglio.