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Riceve a Trieste

La stanza d’analisi di Freud.

All’interno della psicoanalisi vi sono varie correnti teoriche. Non esaustivamente, ne posso citare alcune: neofreudiana, kleiniana, junghiana, lacaniana, psicologia del Sè. Ciò che accomuna le teorie psicoanalitiche – e che al tempo stesso le differenzia dalle altre teorie sulla psiche – è il concetto di inconscio.
L’inconscio (ciò che è inconscio, aggettivo) non è qualcosa di inconoscibile, si manifesta attraverso i sintomi, i lapsus, le dimenticanze, i sogni, le battute di spirito… cose apparentemente prive di senso. Come l’innamoramento.

Credo sia frequente cercare di capire in quali casi la psicoterapia psicoanalitica sia un approccio appropriato, per quali tipi di pazienti, per quali tipi di disturbi.
Inizialmente si pensava che il metodo non si potesse applicare con i bambini, perchè non avevano un Io ancora formato. Poi sono arrivate Anna Freud e Melanie Klein e hanno dato avvio alla psicoanalisi infantile.
Si pensava inoltre che fosse adatta soltanto a pazienti nevrotici e non a pazienti psicotici o borderline. E poi Kernberg e Kohut hanno elaborato una metodologia (e una teoria) diversa e l’hanno reso possibile.
Più recentemente, con il fenomeno dell’immigrazione, la psicoanalisi si sta confrontando criticamente con le altre culture sulla universalità delle sue chiavi di lettura.

Ritengo che la psicoanalisi sia fondamentalmente un percorso di conoscenza di sè, e la conoscenza (come l’amore) ti prende per mano e ti porta dove vuole. Se uno sapesse già tutto non sarebbe amore, non sarebbe vera conoscenza. La conoscenza è trasformazione, e la paura di perdere qualcosa di sè nella trasformazione la accompagna. Non è facile rischiare. Abbandonare l’idea di poter capire tutto – di avere il controllo – spaventa molto. Ma rinunciare a questo non significa morire, significa vivere. I grandi mutamenti avvengono quando si lascia entrare qualcosa che non si capisce, è come quando ci si innamora: non si è più quelli di prima, vada come vada.

Il primo Freud sosteneva che il fine della psicoanalisi era “la cura” del paziente e che questa avrebbe dovuto portarlo alla “guarigione”. Freud però divenne ben presto dubbioso rispetto alle possibilità di guarigione del suo metodo, e gradualmente l’accento sulle finalità dell’analisi si è spostato dall’eliminazione del sintomo al raggiungimento dell’insight, per arrivare ai nostri giorni alla capacità di autoosservazione e autoanalisi. Si potrebbe dire che nel corso del tempo la psiconalisi ha de-idealizzato se stessa, grazie al suo stesso metodo e alla consapevolezza che pochissime sono state le “guarigioni” analitiche. Ciò non significa che la psicoanalisi sia inutile.

Fu Ferenczi a proporre tra le finalità dell’analisi l’accrescimento della conoscenza di sè, ma non si deve pensare che tale conoscenza sia “accademica” (ho precedentemente parlato di conoscenza come trasformazione, non come gioco intellettuale) e non porti con sè dei cambiamenti strutturali. Anzi, frequentemente gli obiettivi di vita con cui il paziente si presenta in analisi si modificano nel corso della stessa.

Gli obiettivi del trattamento infatti sono inevitabilmente e giustamente legati agli obiettivi di vita del paziente – sia consci che inconsci – e a quelli dell’analista, ed è ampiamente riconosciuto che il buon appaiamento di personalità tra analista e paziente costituisce un fattore determinante per il risultato del trattamento. Non è facile trovare l’analista “giusto”, ma non è impossibile. Nella ricerca occorre tener presente che l’analisi non la fa né la teoria, né la scuola, nè la società di appartenenza dell’analista. L’analisi é qualcosa di irripetibile, di non riproducibile e di poco descrivibile, che scaturisce dall’incontro tra due persone (all’interno di un setting) e dalla disponibilità di entrambi. Una psicoterapia psicoanalitica è essenzialmente un’esperienza. E qualunque sia l’orientamento, la differenza tra una buona psicoterapia e una cattiva psicoterapia dipende per buona parte dalla relazione terapeutica.

L’analisi ha naturalmente anche finalità terapeutiche, ma si sono incontrate delle enormi difficoltà cercando di definire quando la “guarigione” sarebbe raggiunta. Quasi da subito, si è cercato di superare la definizione di salute mentale in termini di eventi osservabili (come la scomparsa dei sintomi) formulando gli obiettivi del trattamento in termini metapsicologici, ma siccome questi concetti sono legati al particolare modello teorico adottato, ad oggi non esiste una formulazione univoca degli obiettivi analitici (una disamina approfondita degli obiettivi della psicoanalisi è stata svolta da Sandler e Dreher).

Ma allora, cos’è la normalità? Cos’è la salute? La risposta sarebbe semplice soltanto se facciamo coincidere questi concetti con “libertà dai sintomi” – come fanno altri orientamenti psicoterapeutici, non psicoanalitici. Oggi si riconosce che i criteri della salute sono legati al contesto socioculturale e ai relativi sistemi di valori, ed è largamente condiviso che soltanto dal lavoro congiunto di paziente e analista è possibile, nel corso dell’analisi, selezionare i criteri di salute mentale che rappresentano lo stato di “salute mentale” specifico per quel paziente nella sua particolare situazione di vita.

Il risultato auspicabile dell’analisi varia da un paziente all’altro, siamo molto lontani dal modello medico in cui a una diagnosi corrispondono una prognosi, una terapia e un esito (più o meno probabile). Ogni depressione è diversa, ogni fobia è diversa, ogni sintomo o disagio che viene portato è peculiarmente inscritto nella storia della persona e nel suo carattere. La psicoanalisi lavora “su misura” e, in ogni caso, il paziente arriva sempre fin dove può, indipendentemente da tutto ciò che può pensare l’analista, sia in termini teorici che clinici.

Anche per quest’ultima ragione, ritengo appropriato che ciascuno segua il percorso che sente più affine. La psicoanalisi è una delle vie efficaci per aiutare le persone e mi auguro con questo articolo di essere riuscita a trasmettere le potenzialità che ha.

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