Nell’agosto 2006 Karl Frisch, un professore della Arapahoe High School di Centennial, in Colorado, crea una presentazione in Power Point con l’intento di provocare una discussione all’interno della scuola sul ruolo dell’istruzione scolastica nel ventunesimo secolo. Egli assembla in modo provocatorio una serie di dati statistici sullo sviluppo della tecnologia e sui sempre più rapidi cambiamenti del mondo allo scopo di avviare una riflessione su quali siano le competenze di cui gli studenti avranno bisogno una volta usciti dal mondo della scuola.
Un intento che ha avuto ottenuto un impatto enorme, visto che in pochi anni, a partire da questa semplice presentazione, sono state create più di diciotto versioni video – tutte basate sulla presentazione serrata di statistiche a volte sconcertanti, accompagnate da musica techno e tradotte in numerose lingue – che sono state viste online da almeno 20 milioni di persone e che sono state presentate e discusse in innumerevoli conferenze e workshop in ambito educativo, aziendale e politico in tutto il mondo. La diffusione di questa presentazione (e dei suoi derivati, previsti e sollecitati fin dall’inizio grazie alla licenza Creative Commons) è un esempio abbagliante della cosiddetta “cultura partecipativa”, che ha a che fare in primis con uno spostamento nelle relazioni di potere tra i produttori di media e i consumatori. Frisch, senza una struttura di produzione alle spalle né sforzi di pubbliche relazioni, ha toccato evidentemente un tasto sensibile e ha invitato chiunque fosse interessato a partecipare attivamente alla discussione, alla circolazione e alla creazione di nuovi contenuti.
Il video si intitola “Did you know?” e alle successive versioni è stato aggiunto il suffisso tipico utilizzato per distinguere i software. Questa che vi presentiamo è la versione 4.0, ed è stata realizzata nell’autunno 2009 in seguito all’iniziativa dell‘Economist Magazine che ha chiesto agli autori – Frisch e Scott McLeod che ha trasformato la prima versione in video – di poter utilizzare il loro paradigma sul tema della convergenza tra i media, argomento del Media Convergence Forum 2009 di New York. A differenza dei precedenti, il focus principale non è sull’istruzione e su come la scuola debba cambiare per preparare gli studenti a un mondo diverso da quello in cui sono cresciuti gli adulti di oggi, sovrabbondante di informazioni, globalmente connesso, che cambia rapidamente e che è pesantemente invaso dalla tecnologia, anche se è innegabile che la convergenza dei media abbia rilevanza a cascata anche per il sistema educativo.
Un passaggio del filmato riporta che negli ultimi due mesi è stato caricato più materiale video su YouTube di quanto i tre principali network televisivi americani messi assieme abbiano trasmesso ininterrottamente dal 1948 ad oggi, e subito dopo ci informa che il numero dei visitatori unici dei tre network in un mese – che complessivamente sono on air da 200 anni – è di 10 milioni, mentre il numero dei visitatori unici di tre siti che esistono da meno di 6 anni – YouTube, MySpace e FaceBook – è di 250 milioni.
Questi sono fenomeni che, educatori o no, ci chiedono di confrontarci e di riflettere su cosa significhino la rete e i social network (per i quali la cultura partecipativa non è un esercizio di retorica ma il core business e che sono ormai diventati un retroterra comunicativo normale) per l’essere umano del ventunesimo secolo. Occorrerebbe comprendere sia le implicazioni positive che quelle negative di queste forze destabilizzanti, ma è un’impresa certamente non semplice in quanto gli strumenti accademici di osservazione e misurazione sono obsoleti e inadeguati rispetto a questo nuovo sistema culturale dinamico che perciò risulta di fatto, per ora, incommensurabile.
Su YouTube e FaceBook in particolare, vengono proiettate e depositate molte ansie degli adulti verso i giovani e la società in generale. Quando i media tradizionali ne parlano, si polarizzano tipicamente o verso una visione permeata di “esotismo” e luoghi comuni (i giovani hanno una naturale abilità tecnica, hanno idee strane, buffe e creative) o fanno da cassa di risonanza di fenomeni marginali che hanno a che fare con i rischi e gli abusi di Internet. Entrambe queste visioni sono estremamente parziali e l’ansia viene ulteriormente amplificata da una “distanza intergenerazionale” digitale che sembra fissare un nuovo “divieto d’incesto”. Le difese da questo “panico mediatico” (Drotner, 1999) mettono in campo tentativi di repressione e regolamentazione di una libertà che viene vista come indisciplinata e selvaggia. La nuova categoria del cyber-bullismo è esemplare in questo senso: creata con la complicità dell’accademia (Slonje & Smith, 2008) ha portato a restrizioni all’accesso al YouTube in diverse strutture scolastiche con la motivazione di scoraggiare la pubblicazione e la visione di filmati umilianti o violenti a danno di altri. Eppure, nell’ultimo film di Ken Loach, “Il mio amico Eric” (2009) il cyberbullismo è l’ultima efficace risorsa per difendere un adolescente da un criminale. E viene messo in pratica da un gruppo di adulti. Ironico? Forse solo un altro segnale di quanto sia sfuggente, caotico, variabile l’utilizzo della rete e di quanto dobbiamo ancora osservare per cercare di comprenderla.
Quel che è certo, è che la tecnologia rappresenta e offre estensioni del nostro corpo e della nostra mente, impensabili, e che il simbionte “uomo-con-il-computer” costituisce un’entità diversa dall'”uomo-senza-il-computer”. Con buona pace di Rousseau, ci troviamo di fronte a una vera e propria svolta antropologica.
E il cambiamento (shift) è già avvenuto.