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SEGNALAZIONE

Nell’articolo del corriere della sera Veneto si parla di una psichiatra che ha evaso il fisco in ordine di oltre un milione di euro in 4 anni. Nell’articolo però vengono chiamati in causa gli psicologi, come se il medico in questione fosse una psicologa. Il tutto farcito da confusioni di professioni come psichiatra, psicologo e analista (non so… forse il giornalista dotto voleva dire psicanalista).
Insomma tutto un fiorire di imprecisioni e disinformazione, invitando inoltre i lettori a rivedere se sia il caso o meno di rivolgersi all’intervento degli psicologi, visto che sono evasori del fisco. Credo sia grave quello che dichiara questo incauto giornalista e meriti anche una segnalazione all’Ordine degli psicologi del Veneto.

Susanna Murray

ARTICOLO ORIGINALE

La psichiatria delle tasse

COMMENTO REDAZIONALE DI GABRIELLA ALLERUZZO

Il tema del pagamento in terapia rientra in quello più ampio del setting ed è stato trattato seriamente dal punto di vista teorico a partire dagli albori. Freud ha introdotto il principio del “noleggio dell’ora” come strumento necessario, in quanto “senza di che le resistenze dell’inconscio troverebbero una sin troppo facile via di scarica”.

La presenza di un onorario non soltanto introduce nel rapporto terapeutico dei significati, ma investe anche aspetti legati al principio di realtà, individuali e sociali. La psicoterapia é un’attività professionale e, in quanto tale, possiede una dimensione concreta, di cui gli aspetti legati alla transazione del denaro fanno parte.
Lo psicologo dipende dalla sua attività professionale per guadagnarsi da vivere, ma immaginare che la dimensione economica del rapporto non influisca sullo spazio relazionale e sulla terapia è quanto meno ingenuo. In questa dimensione idealizzata – a volte fantasticata da alcuni pazienti che chiedono primi colloqui o addirittura terapie gratuite in virtù dell’idea che se al terapeuta importasse “veramente” di loro non chiederebbe del denaro per aiutarli – sarebbe impossibile elaborare tutta l’importantissima area simbolica delle dipendenze e delle controdipendenze, ma allo stesso modo ci si scontrerebbe con l’impossibilità di compiere un trattamento psicoterapeutico se la dipendenza del terapeuta dai pazienti per il proprio sostentamento fosse eccessiva.

Uno dei compiti dello psicologo consiste nel sapersi muovere con equilibrio nel mondo reale, tra le leggi – anche fiscali –  e il Codice Deontologico che inseriscono la sua professione nella società.

http://www.osservatoriopsicologia.com/wp-content/uploads/2012/05/parere_exp.jpgPARERE DEL PROF. PAOLO MIGONE
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane www.psicoterapiaescienzeumane.it
(Via Palestro 14, 43123 Parma, Tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>)

L’Osservatorio Psicologia nei Media (OPM), a sèguito della segnalazione di un articolo sul Corriere della Sera che parlava di uno psichiatra che aveva evaso il fisco, mi chiede una riflessione sul problema del denaro in psicoterapia. Faccio quindi alcune considerazioni, abbastanza libere, sulla questione del denaro in psicoterapia e anche sul fisco, sperando che possano interessare ai colleghi.
Il denaro e le fatture sono aspetti che non appartengono a una categoria logica diversa da tutti gli altri aspetti della relazione psicoterapeutica. Quindi, a rigore, si potrebbe dire che già il chiedersi che ruolo ha il denaro in psicoterapia può rivelare una errata concezione della psicoterapia, cioè può smascherare il fatto che quei colleghi che si pongono questo problema hanno alle spalle una concezione stereotipata, basata su quella che potremmo chiamare teoria delle etichette, in cui i significati non vanno ricercati ma presi per il loro valore di facciata. Una cultura quindi certamente non psicodinamica, e forse estranea anche a quasi tutte le scuole di psicoterapia.
Non vi è dubbio che il denaro, ad esempio la voglia di guadagnare da parte del terapeuta e di risparmiare da parte del paziente, sia una questione legata a emozioni e motivazioni che possono anche essere importanti, ma allo stesso modo in cui può esserlo la sessualità, nel senso che anche la sessualità può far vibrare corde profonde all’interno di ciascuno noi. Intendo dire che così come un terapeuta può essere imbarazzato a parlare del denaro, può esserlo anche a parlare del sesso, o magari può non essere assolutamente a disagio a toccare questi temi ma può esserlo quando si parla di un lutto, ad esempio evita il discorso per paura di mettersi a piangere e quindi impedendo al paziente di parlarne. La stessa cosa può accadere per altri sentimenti, come l’amore e così via. Se certi temi sono difficili da affrontare, proprio per questo è importante affrontarli in una psicoterapia, altrimenti semplicemente la psicoterapia non avviene. Ritengo quindi che il problema non sia rappresentato da un dato argomento (perché potrebbe trattarsi di qualunque argomento), ma che sia quello di avere ben chiaro cosa sia la psicoterapia.

Alcuni esempi clinici
Per farmi capire meglio, faccio degli esempi. Mi ricordo che una volta sentii dire da una psicoanalista, peraltro abbastanza nota e da me stimata, una cosa che mi lasciò sconcertato. Disse che lei non sollevava mai coi pazienti il problema delle fatture perché era compito del paziente chiederle; se un paziente le chiedeva lei faceva le fatture, se non le chiedeva lei non le faceva perché era responsabilità del paziente chiederle, e lei rispettava questa sua volontà. Io rimasi così sorpreso da non riuscire a dire niente, anche perché non volevo in quel momento iniziare una accesa discussione. Infatti se le avessi detto quello che pensavo avrei dovuto dirle che lei, nonostante la sua lunga carriera di stimata psicoanalista, non solo si comportava in modo non onesto, ma stava ignorando le dinamiche inconsce, in sostanza le idee base della psicoanalisi. Perché ho pensato questo? Per il semplice motivo che questa collega si fermava al livello fenomenico (quindi non psicoanalitico), senza pensare che potevano esservi dei motivi per cui un paziente non chiede le fatture, e questi motivi potrebbero essere proprio l’oggetto della terapia.
Faccio un esempio tipico: un paziente vorrebbe le fatture ma non osa chiederle perché teme di essere assertivo, e questo suo timore è uno specifico transfert che va messo in luce e analizzato. Una sua “credenza patogena” (termine usato dai cognitivisti, simile a quello che gli psicoanalisti chiamano transfert) potrebbe essere che, se il paziente chiede una cosa per sé, ferisce il terapeuta, e non vuole ferirlo, vuole proteggerlo; un’altra credenza patogena potrebbe essere che, se il paziente  va contro gli interessi del terapeuta, verrà danneggiato perché poi il terapeuta non lo cura più così bene, o magari si arrabbia con lui. La cosa curiosa, e che il paziente non riesce a capire a causa di questo suo transfert molto radicato, è che è vero proprio il contrario, e cioè che per essere curato bene deve analizzare ed eliminare questa sua credenza patogena che lo danneggia nella vita e per la quale, tra l’altro, viene in terapia. Non analizzando questo transfert (o questa credenza patogena, nel linguaggio dei cognitivisti), la terapia – per così dire ed estremizzando il discorso – viene fatta per non farla, cioè per far restare le cose così come sono; anzi, forse la terapia può servire a convincere ancor di più il paziente che fa bene a non essere assertivo e a farsi mettere i piedi in testa dagli altri, perché in questa cosiddetta “terapia” – che per lui è una esperienza importante, un grande test sulle sue credenze consce e inconsce – incontra un terapeuta che collude con lui, che inconsciamente suggella la sua idea che nella vita non conviene farsi rispettare, che è meglio non avere stima per se stessi, e così via. E per di più questo messaggio gli viene dato da uno psicoanalista, che dovrebbe essere esperto di queste cose.
Potrebbe anche essere che il terapeuta non parli delle fatture non perché vuole frodare il fisco (cioè non per guadagnare di più, perché ad esempio può essere già ricco), cioè non perché è un disonesto, ma semplicemente perché – come penso sia il caso della collega che ho citato prima – in quel momento non è consapevole delle dinamiche inconsce. A ben vedere però si comporta anche in modo disonesto, perché non può non sapere che le fatture non vanno fatte solo per il paziente (a cui servono per detrarre parte del costo della terapia), ma anche per lo Stato. Cioè per noi tutti (terapeuti e pazienti), perché alla fin fine noi siamo lo Stato. Chi non fa le fatture ruba agli altri, potremmo dire.
A questo proposito mi viene in mente un’altra vignetta clinica, che riguarda una mia paziente. Quando le chiesi i dati per la fattura, mi disse che potevo non farla, tanto lei non avrebbe usato le fatture, non ne aveva bisogno, le avrebbe buttate via. Io non indagai subito i motivi di questa sua affermazione: ad esempio, lei poteva non avere consapevolezza dell’importanza di pagare le tasse, oppure, volendo fare ipotesi sulle sue dinamiche più o meno inconsce, poteva cercare di “farmi un favore perché mi voleva bene”, o “perché io le volessi bene” cioè cercava di propiziarsi la mia benevolenza perché temeva che altrimenti io non l’avrei curata bene, e così via in mille altre ipotesi che si potrebbero facilmente fare in questi casi (in breve, e in termini molto generici, potrebbero essere dinamiche legate alla paura dell’assertività o dell’aggressività). La terapia era appena iniziata, e temevo che, se avessi cercato di approfondire i motivi per cui lei aveva fatto questa affermazione, avrei rischiato di apparire un po’ intrusivo, mi sarei “avvicinato” troppo a lei, o avrei potuto anche sbagliarmi. Mi limitai a dirle: “Ma le fatture non si fanno solo per i pazienti, si fanno per lo Stato”. Lei rimase colpita da questa mia frase, quasi arrossì un po’, e subito mi disse: “Mi scusi”. La cosa curiosa di questa paziente era che era una persona colta e impegnata politicamente, suo marito era un uomo politico che aveva un posto di grande responsabilità in un partito di sinistra del loro Comune. Quindi non poteva non conoscere l’importanza del pagare le tasse. Più avanti nella terapia capii che quel suo cercare di farmi quello che lei credeva un favore rispondeva a un suo atteggiamento oblativo che aveva con quasi tutti, soprattutto con le persone significative della sua vita, e in terapia lavorammo anche su questo (non posso qui entrare nei dettagli di questo caso clinico).
Il caso di questa paziente che mi disse che potevo non farle le fatture mi fa venire in mente un altro esempio clinico, quello di una mia paziente di vari anni fa. Questa paziente le fatture non le voleva proprio, diceva che lei non voleva avere niente a che fare con lo Stato, il quale non le aveva mai dato niente, per lei lo Stato era un nemico, e così via in una serie di razionalizzazioni. Insistetti, ma lei proprio non ne voleva sapere. Io ovviamente subodoravo che sotto ci fosse una dinamica importante, ma non potevo interpretarla perché conoscevo la paziente ancora troppo poco. Decisi allora di compiere quella che alcuni chiamano una “azione interpretativa”, cioè le imposi le fatture di autorità: o le accettava o non potevamo fare la terapia, per cui lei, obtorto collo, dovette accettarle. In seguito scoprii di lei delle cose molto interessanti. Questa paziente era una figlia illegittima, e non era stata riconosciuta dal padre, che lei conosceva e ogni tanto vedeva per strada ma col quale non aveva mai parlato. Questo non riconoscimento aveva rappresentato una grossa ferita che le aveva generato varie credenze patogene e anche molta rabbia. Si era sempre considerata una persona di serie B, una cittadina di seconda classe, con meno diritti degli altri. Scoprimmo che quel suo rifiutare le fatture era anche un modo col quale lei esprimeva la sua diversità, il suo non sentirsi parte della società, il non avere i diritti che avevano tutti gli altri, e – con un ostentato orgoglio che ovviamente era una difesa – rimarcava questa diversità come fosse una sua scelta (negando cioè il fatto che invece l’aveva dovuta subire). La mia “azione interpretativa” con la quale l’avevo costretta ad accettare le fatture, e quindi ad avere i diritti di tutti gli altri e sentirsi come gli altri, forse le era servita più di tante interpretazioni psicoanalitiche che avrei potuto farle (anche in questo caso non posso addentrami nei particolari di questo interessante caso clinico, che peraltro – mi viene in mente adesso – ho raccontato anche altrove per quanto riguarda però una problematica diversa: vedi pp. 80-81 del mio libro Terapia psicoanalitica. Nuova edizione. Milano: FrancoAngeli, 2010 [prima edizione: 1995, pp. 88-89]).
A questo punto mi viene in mente un altro caso clinico che riguarda la questione del denaro, un caso raccontato da Tom Ogden all’interno di una sua discussione del concetto di identificazione proiettiva (più precisamente, questa vignetta clinica illustra un esempio della terza fase della identificazione proiettiva così come la descrive Ogden; non mi è possibile in questa sede parlare in modo più approfondito del concetto di identificazione proiettiva, per cui rimando al cap. 7 del mio libro Terapia psicoanalitica, prima citato; vedi anche Migone, 1988):

«Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all’analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall’analisi “ci guadagnava qualcosa”, diceva “forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile”, e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle sempre più in ritardo, fino al punto che l’analista incominciò a chiedersi se il paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l’analista pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell’inizio di una seduta, l’analista pensò di accorciare l’ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Inizialmente tutto questo accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l’analista. Gradualmente, l’analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente “il valore di quello che lui pagava”.
Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l’analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo “inutile” lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo [cioè con una formazione reattiva]. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l’analista fu capace di guardare ora in modo nuovo al materiale clinico.
Il padre del Sig. K aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l’avidità del paziente per il tempo, l’energia e l’affetto della madre aveva provocato l’abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all’analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l’abbandono da parte del padre (transferale) e l’attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell’analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l’analista e l’analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L’interazione aveva sottilmente generato nell’analista un intenso sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all’inizio anch’egli cercò di negarlo e sconfessarlo.
Per l’analista, il primo passo nell’integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell’aspetto di se stesso che era interessato alla comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell’analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell’analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l’analista diventava consapevole di questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di conviverci, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro.
Dopo un po’ di tempo il paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l’analista sembrava felice di ricevere “quel bel grasso assegno”, e che ciò “non si addiceva molto a uno psicologo”. L’analista sorrise un po’, e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione, l’accettazione da parte dell’analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l’internalizzazione da parte del paziente. L’analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la reinternalizzazione attraverso l’interazione terapeutica» (Ogden, 1979 pp. 361-362, pp. 18-20 ediz. inglese del 1982; cit. in Migone, 2010, pp. 131-132).

Come si vede in questo esempio clinico, che è uno dei tanti che si potrebbero raccontare, la questione del denaro viene proficuamente utilizzata per comprendere dinamiche sia del paziente sia del terapeuta, e si noti che il denaro è un aspetto tra i tanti che possono rientrare nel lavoro terapeutico in senso lato, infatti il terapeuta riflette ugualmente, ad esempio, sulla durata della seduta (non entro qui in questioni di teoria della tecnica riguardo alla identificazione proiettiva perché non sono pertinenti, ad esempio Ogden suggerisce che a volte è preferibile non interpretare ma utilizzare la interazione in quanto tale a scopo terapeutico; rimando a Migone, 1988, 2010 cap. 7).

Le fatture
Faccio ora alcune riflessioni più specifiche sulle fatture. La gestione delle fatture per lo psicoterapeuta ha un significato un po’ diverso da quello che ha per altre professionisti, ad esempio l’avvocato o il dentista. Quando una persona va dall’avvocato, il suo principale interesse è vincere una causa legale; se l’avvocato non fa la fattura, questa scorrettezza può non influire sulla battaglia legale, casomai influisce sulla stima che il cliente ha per l’avvocato (e, nel mondo in cui viviamo, può anche accadere che questa stima addirittura aumenti se vi è sintonia tra il sistema di valori del cliente e dell’avvocato). Ma se una persona va dallo psicoterapeuta, la questione delle fatture riguarda il senso della relazione interpersonale, la correttezza, la fiducia, riguarda cioè il motivo per cui uno va in terapia. Ogni nostro gesto o comportamento ha un significato importante per il paziente. Non parlare delle fatture, ad esempio, può trasmettere il messaggio che ci sono dei segreti di cui non si può parlare. Sappiamo bene poi che la psicoterapia è anche una trasmissione di valori, e se non facciamo le fatture dobbiamo essere consapevoli dei valori che trasmettiamo. Qui qualcuno può obiettare che paziente e terapeuta possono essere d’accordo nel non pagare le tasse: entrambi si sentono vessati dal fisco, vogliono rifarsi contro lo Stato, ecc. Inoltre è noto che l’Italia è un paese anomalo al riguardo, nel senso che nel settore privato vi è una evasione fiscale massiccia, e chi paga regolarmente le tasse può sentirsi in una condizione di profonda ingiustizia e solitudine, ingiustizia che spesso è avallata dallo Stato (si pensi ai periodici condoni). Sembra insomma che in Italia la regola sia una ipocrisia ufficializzata, in cui vi sono due verità, una ufficiale (“bisogna pagare le tasse”) e un’altra ufficiosa che tutti conoscono ma che deve essere tenuta semi-nascosta (“bisogna fare il possibile per non pagare le tasse”). Non è questa la sede per fare discorsi esplicitamente politici, mi limito però a dire che, se tutti pagassero le tasse, esse sarebbero molto minori. In altri paesi, dove vi è un maggiore senso dello Stato, quasi tutti pagano le tasse, addirittura molti si vantano di pagarne di più, e gli evasori vengono puniti molto severamente.
La mia opinione è che tutti gli psicoterapeuti dovrebbero fare sempre le fatture, non solo perché è giusto pagare le tasse ma anche perché questo gesto può essere percepito dal paziente come un segno di correttezza e onestà anche verso di lui, non solo verso lo Stato. Molti colleghi obiettano che fare le fatture implica un guadagno molto minore, per cui propongono al paziente una doppia tariffazione, proprio come fanno certi dentisti: alta con fattura e più bassa senza fattura. A volte anche i pazienti chiedono questa doppia tariffazione. Come ho già detto, ritengo che questo sia scorretto perché la non fatturazione significa un furto allo Stato, quindi a tutti i cittadini. Ancor più scorretto, ovviamente, è non fare la fattura mantenendo la stessa tariffa, sperando che il paziente sia così ingenuo o ignorante in campo fiscale da non sapere che in questo modo il terapeuta guadagna di più, quasi il doppio in certi casi (nella mia esperienza, sono i pazienti ricchi i più esperti e che si fanno rispettare, mentre i meno ricchi spesso subiscono o non conoscono i loro diritti). In realtà molti pazienti non sono ignoranti in campo fiscale ma non hanno il coraggio di dire al proprio terapeuta che questo è un vero e proprio imbroglio, e spesso, come ho detto prima, il motivo per cui non hanno il coraggio di parlare è il motivo stesso per cui vengono in terapia, così che il terapeuta, per così dire, non fa una terapia (guadagna e basta), colludendo con le resistenze del paziente e rinforzando il suo transfert patologico.
Ma c’è anche un motivo pratico, molto semplice, per cui conviene anche al terapeuta fare sempre le fatture. È un motivo utilitaristico, non basato su regole morali, per cui dovrebbero capirlo anche coloro che sono un po’ sordi al problema dei valori e sono più portati a difendere i propri interessi che a rispettare quelli degli altri. Non facendo le fatture siamo continuamente ricattabili da parte dei pazienti (si pensi a certi borderline, che a volte non vedono l’ora di perseguitarci, che vanno a nozze con la possibilità di averci in pugno, a volte basta un nonnulla e si è denunciati). È meglio essere sempre ricattabili oppure perdere un po’ di denaro, come se facessimo una piccola assicurazione, ed essere più tranquilli, anche con la nostra coscienza? A mio parere non vi sono dubbi, è molto meglio fare regolarmente le fatture a tutti e sentirsi tranquilli.

Vanno pagate le sedute saltate?
Su questo argomento qui non mi soffermo perché l’ho già discusso altrove, per cui rimando ad un altro lavoro: Migone, 2011a.

Quando farci pagare
Un altro interessante aspetto è quando farci pagare le sedute, se ad esempio ogni volta oppure alla fine del mese. In psicoanalisi, anche comportamenti apparentemente privi di significato o banali possono essere visti come “sintomi”, nel senso che possono avere un significato che, una volta compreso, può illuminare in modo interessante dinamiche psicologiche del paziente o del terapeuta (in questo senso potremmo dire che “la vita stessa è un sintomo”, ovvero – come insegnava la psicoanalisi classica – non esiste una “zona franca” in cui possono non entrare in gioco difese, soluzioni di compromesso, ecc.). Facciamo ancora una volta un esempio, una situazione che sarà capitata a tantissimi colleghi. Il terapeuta, nell’esporre a un paziente le regole di base all’inizio della terapia, tra le altre cose dice che vorrebbe essere pagato all’ultima seduta del mese. Il paziente risponde che non gli va bene questa regola, e che vorrebbe pagare a ogni seduta, così come quando va in un negozio a comprare qualcosa. Può giustificare questa preferenza in vari modi, ad esempio dice che non gli va di accumulare debiti, o che teme di non saper mettere da parte i soldi fino alla fine del mese per cui, nell’interesse anche del terapeuta, preferisce pagare ogni volta. Il terapeuta può rimanere fermo nella sua richiesta oppure venire incontro al paziente, non discuto la correttezza di queste scelte perché dipendono da mille fattori che andrebbero esaminati caso per caso. Ad esempio, per motivi tattici, di fronte a una pressante richiesta in prima seduta del paziente può essere preferibile venirgli incontro, perché una nostra problematicizzazione, anche minima, può essere vissuta come un rifiuto. È insomma troppo presto, all’inizio è importante rafforzare l’alleanza, vi sarà tempo dopo per approfondire eventuali significati. Quello che invece voglio fare adesso è discutere eventuali dinamiche perché a volte possono passare inosservate, cioè alcuni terapeuti prendono per buone le spiegazioni dei pazienti senza capire che sono razionalizzazioni di fantasie sottostanti, per cui perdono importanti opportunità di aiutarli a conoscerle e quindi a migliorare. Faccio alcuni esempi tra i più comuni: un paziente ha bisogno di essere molto oblativo, teme di sentirsi in colpa se ha un debito, o addirittura teme il terapeuta per dinamiche ansiose di varia natura, e pagare ogni volta lo rassicura (ha problemi con l’aggressività, con la giusta distanza, ecc.); un altro paziente può addirittura fare la fantasia che dopo una seduta non vi saranno più altre sedute perché lui scapperà (o il terapeuta non lo vorrà più rivedere – a me è capitato addirittura un paziente che, reduce da lutti e storie veramente traumatiche, temeva che io potessi morire prima che lui mi pagasse quello che mi doveva!); come dicevano una volta i classici col linguaggio della vecchia metapsicologia, un paziente può avere difficoltà a “dilazionare la scarica”, per cui non riesce ad attendere fino alla fine del mese, nel senso che ha problemi in funzioni dell’Io quali capacità di previsione, memoria, ecc. (la difficoltà a prevedere le spese mensili può essere un esempio). Insomma, le eventualità sono infinite, ma quello che è importante è che il terapeuta sappia vedere possibili significati dietro a comportamenti e pensieri del paziente (quelli che una volta si chiamavano i “derivati”), perché se prende per il valore di facciata quello che succede nella relazione terapeutica, limitandosi ad accettare empaticamente il paziente e ad andare d’accordo con lui (come possono fare alcuni fenomenologi e anche certi psicoanalisti relazionali), la terapia diventa una esperienza molto meno interessante per il paziente. Naturalmente non intendo dire che la psicoterapia debba essere sempre interpretazione, tutt’altro, può non esserlo mai (come è di fatto per la maggior parte dei nostri pazienti, che hanno altri bisogni), né intendo dire che non dobbiamo essere empatici (anzi, è il contrario, perché possiamo essere empatici solo se conosciamo il paziente, per cui, paradossalmente, un terapeuta che guarda solo alla superficie non è empatico). Inoltre può aver senso invitare il paziente a rispettare il contratto che gli proponiamo per saggiare la sua capacità di cambiare un suo pattern, una sua abitudine, dato che può sottovalutarsi se pensa che non ne è capace. A volte il setting stesso, come sottolineano alcuni autori, ha un valore terapeutico di per sé; ad esempio, il paziente che diceva che non poteva tenere i soldi fino alla fine del mese, perché temeva di spenderli tutti prima, può provare a metterli da parte, imparando a costruire – dietro incoraggiamento del terapeuta – una nuova “funzione dell’Io” che gli sarà poi utile nella vita in tanti altri aspetti.
Naturalmente anche la richiesta del terapeuta di essere pagato ogni volta e non alla fine del mese può (ma non necessariamente) avere precisi significati inconsci che hanno un effetto negativo sulla fiducia del paziente, per ovvi motivi che è superfluo discutere.

Quanto farci pagare
Accenno ora alla tematica della tariffa, cioè del giusto prezzo delle nostre prestazioni. Non è facile stabilire quale sia la tariffa giusta, perché entrano in gioco mille fattori, sia oggettivi che soggettivi. Tra i fattori oggettivi, vi possono essere delle indicazioni massime o minime dell’Ordine professionale, oppure variazioni che dipendono dall’area geografica in cui si opera, dall’equilibrio tra domanda e offerta, o anche dall’anzianità, nel senso che un terapeuta giovane può chiedere meno di un terapeuta anziano (nell’assunto che il giovane sia meno bravo dell’anziano, cosa peraltro da dimostrare). Nella nostra società vi è l’idea che se una cosa costa di più vale di più. In psicoterapia però non è facile stabilire dei criteri di “bravura” (e, se guardiamo alla ricerca empirica, rimaniamo ancor più disorientati – certe ricerche hanno dimostrato che non vi è differenza tra terapeuti giovani e vecchi, o addirittura che i giovani possono produrre risultati migliori – ma è ancora troppo presto per avere dati certi, e comunque un conto è la ricerca e un conto è la clinica [Migone, 2001, 2008]). Si pensi ad esempio, come molti hanno fatto notare, all’apparente paradosso che vi è in psicoterapia rispetto ad altre specialità mediche: in chirurgia le operazioni più difficili le fa il primario e le più facili (es. una appendicite) le fa l’assistente, mentre in psicoterapia i colleghi più anziani ed esperti cercano di tenere per sé i pazienti più facili, mentre i casi più difficili vengono spesso e volentieri passati ai giovani, che sono anche meno remunerati. Penso che questo apparente paradosso la dica lunga sulla vera natura della psicoterapia come professione di aiuto.
Ma torniamo alla questione della tariffa. Quanto chiedere a seduta? Si è detto prima che la tariffa dipende anche dalla domanda e dall’offerta, per cui può essere più alta in periodi di “vacche grasse” e più bassa in periodi di “vacche magre”, cioè di crisi economica o di sovrabbondanza di terapeuti in presenza di un numero sempre più basso di pazienti disponibili a pagarsi una terapia. A questo proposito mi viene in mente un episodio divertente. Mi è stato raccontato che un giovane collega, che aveva un forte bisogno di guadagnare, di fronte a un paziente che gli aveva detto di non potersi permettere di pagare la tariffa richiesta si è subito offerto di abbassarla. Però, di fronte nuovamente alla difficoltà del paziente di pagare anche la tariffa scontata, dopo un po’ di tentennamenti gli propose una tariffa ancor più bassa, temendo che altrimenti il paziente si sarebbe rivolto a un altro collega. Ma anche di fronte al secondo sconto, il paziente, dopo averci pensato, non se la sentì, e dovette dire che non poteva permetterselo, accennando ad alzarsi per andarsene. Il terapeuta a questo punto non seppe più come fare, e cercò in un qualche modo di trattenere il paziente per vedere se riusciva a convincerlo. Lo seguì mentre si avvicinava alla porta, cercando sempre di persuaderlo e, vedendo che il paziente era irremovibile, proprio sulla porta gli fece un’ultima, stracciatissima, offerta (peraltro inutilmente). Questo episodio di uno psicoterapeuta che non esita a comportarsi come un vu cumprà ha qualcosa di comico, e nel contempo di triste perché mostra impietosamente a che punto possono arrivare certi nostri colleghi in stato di bisogno.
Non dovremmo contrattare il prezzo come fossimo in un mercato del Medio Oriente, perché daremmo una immagine poco dignitosa, e soprattutto metteremmo nel paziente il dubbio che la “prima offerta” sia stata volutamente alzata in modo non necessario. Posso capire che un giovane faccia il possibile per non perdere un paziente, ma può anche essere che contrattare il prezzo, abbassandolo molto, abbia effetti contro-terapeutici difficilmente poi elaborabili, mentre rimanere fermi sulle proprie posizioni serva da esempio di integrità: può anche accadere che il paziente non accetti, ma poi il giorno dopo ci ripensa, ci richiama e decide di venire in terapia perché ha capito che di noi si può fidare.
A mio parere dovremmo avere tariffe medie, non troppo diverse da quelle vigenti nella nostra zona. Variare molto, sia verso l’alto che verso il basso, è già un segno di diversità che mettiamo di fronte al paziente, una diversità che andrebbe spiegata perché è una informazione precisa su di noi. Ritengo poi che ogni terapeuta dovrebbe avere la stessa tariffa per tutti i pazienti, ricchi e poveri, simpatici e antipatici, facili e difficili, e che se deve essere aumentata questo deve avvenire al primo gennaio di ogni anno, con un aumento che dovrebbe seguire (possibilmente in modo un po’ inferiore) quello dell’inflazione. Io almeno faccio così perché per me è il sistema più comodo: a mio parere avere tariffe differenziate non è corretto, se non altro perché può capitare che due pazienti si incontrino, si parlino e uno si senta tradito scoprendo che l’altro paga meno. So che tanti colleghi fanno tariffe differenziate per venire incontro a certi pazienti, ma quando compriamo il pane dal fornaio non è che costi meno se siamo poveri e molto se siamo ricchi, e se vi sono disuguaglianze sociali non dovrebbero farsene carico i singoli cittadini ma lo Stato. Questo ovviamente è un obiettivo ideale, e ammetto possa non essere facile seguirlo nel senso che ciascuno di noi può decidere di intervenire in mille modi. Però in psicoterapia dovremmo essere sempre consapevoli dei moti affettivi che mettiamo in atto, analizzarli il più possibile, anche perché essi hanno un significato preciso anche per i pazienti, che possono sentirsi privilegiati o esclusi. Può non essere sempre facile controllare il proprio controtransfert con un paziente a cui abbiamo fatto il grosso “regalo” di farlo pagare poco, soprattutto se la terapia si prolunga molto nel tempo, per non parlare delle grosse implicazioni transferali in un paziente che sa di ricevere questo regalo.
Una riflessione a parte merita il caso di quei terapeuti che fanno tariffe molto alte, nettamente superiori alla media per area geografica e livello di preparazione dei loro colleghi. Sono rimasto sempre colpito da questi terapeuti, e più volte mi sono domandato quale può essere il motivo di questa loro alta tariffazione. Già la psicoterapia, anche a tariffe medio-basse, rappresenta un sacrificio per la maggior parte dei pazienti (ed è inaccessibile a tanti), per cui porsi sul mercato con tariffe molto alte è un messaggio forte, preciso. Ma quale può essere il messaggio che in questo caso il terapeuta vuole dare? Un primo messaggio, ovviamente, può essere che vuole prendere in terapia solo pazienti molto ricchi. Ma perché vorrebbe solo pazienti molto ricchi? Questa decisione implica una scelta di valori, “politica” in un certo senso. Tra l’altro, selezionare i pazienti può essere uno svantaggio per il terapeuta, perché i pazienti molto ricchi rappresentano solo una fascia ristretta dei possibili pazienti interessanti, anzi, non è detto che siano i più interessanti, a volte sono molto meno interessanti (è ovvio che non vi può essere una correlazione tra livello economico e “interesse” dal punto di vista psicoterapeutico, questa ipotesi è assurda e certamente “antipsicoanalitica”, se quel terapeuta è uno psicoanalista). Vi deve essere quindi un’altra spiegazione. Forse che il terapeuta si sente più “interessante” o più “bravo” se da lui vanno pazienti ricchi? Se fosse così, tale scelta rivelerebbe una forte insicurezza di questo terapeuta e, se è uno psicoanalista, una non consapevolezza delle sue dinamiche inconsce. La stessa ipotesi vale per quei terapeuti che “si vantano di fare tariffe alte”, cioè si tratterebbe di tratti narcisistici di cui il terapeuta non è consapevole, e ciò potrebbe andare a detrimento della sua tecnica, per cui alla fin fine, nonostante le tariffe alte, non sarebbe un bravo terapeuta. Un’altra ipotesi che si può fare è che questi terapeuti esosi abbiamo molto bisogno di guadagnare, ma direi che questa ipotesi è poco probabile perché in genere questi colleghi sono già ricchi per conto loro per cui non hanno certo bisogno di soldi. Ma se anche avessero bisogno di guadagnare, è comunque interessante riflettere su quei terapeuti che sono contemporaneamente ricchi ed esosi. Un’altra possibilità viene subito in mente, e cioè che questi terapeuti si considerino molto più bravi degli altri e, dato che nella nostra società vi è una correlazione tra prezzo di un oggetto e sua qualità (ad esempio un’automobile con 1.000 cc di cilindrata costa meno di un’automobile con 2.000 o 3.000 cc di cilindrata), loro pensano di essere molto più bravi dei colleghi della stessa fascia di età e tipo di formazione che lavorano nella loro zona, e magari vogliono trasmettere proprio questo tipo di messaggio (messaggio che a volte viene accettato come vero da tanti colleghi e pazienti). Questo discorso però non è semplice, sia perché tutti abbiamo conosciuto colleghi che non stimiamo affatto e che fanno tariffe molto alte, sia perché non è così facile, come dicevo prima, stabilire chi è bravo e chi non lo è. All’interno di un certo range, la bravura di un terapeuta è un concetto aleatorio. A me sembra infatti che più che altro siano i pazienti a essere “bravi”, non tanto i terapeuti, cioè sono i pazienti lievi quelli che migliorano di più e ci fanno sembrare bravi, mentre i gravi migliorano molto meno. Questo è anche dimostrato da ricerche empiriche, si pensi al noto aforisma di Horwitz (1974) secondo cui in psicoterapia «the rich get richer and the poor get poorer» (vedi anche Luborsky, 1984, p. 54 ediz. orig.; Migone, 1996), cioè i ricchi diventano più ricchi mentre i poveri, cioè quelli che all’inizio della terapia hanno maggiori problemi, migliorano poco. Non va dimenticato poi che i pazienti più ricchi spesso sono già selezionati dalla vita, cioè sono meno gravi di altri, e che certi terapeuti (spesso e volentieri proprio quelli che fanno tariffe alte) selezionano i pazienti. Non solo, ma, come è dimostrato dalle ricerche (si pensi al concetto di patient-therapist match, cioè all’“accoppiamento” ottimale tra terapeuta e paziente come uno dei più importanti predittori del risultato positivo), alcuni pessimi terapeuti sono gli unici a fare migliorare certi pazienti e, viceversa, ottimi terapeuti sono pessimi con determinati pazienti. Per questi e altri motivi che sarebbe lungo discutere qui (si veda anche quanto ho accennato prima a proposito di certi paradossi che caratterizzano la psicoterapia), nel nostro campo non è affatto facile stabilire chi è bravo e chi non lo è, e molti terapeuti ingenui credono di essere molto bravi senza sapere che hanno avuto solo la fortuna di avere pazienti facili, o addirittura senza rendersi conto di averli selezionati, oppure sono terapeuti non “bravi” ma “brevi”, cioè prendono il miglioramento iniziale (quella che i ricercatori chiamano honey moon, luna di miele) come vero miglioramento e ingenuamente interrompono la terapia senza sapere che deve ancora iniziare (Migone, 2005a, 2005b, 2011c). Ma anche se uno fosse veramente bravo, ci si potrebbe comunque chiedere perché mai dovrebbe fare tariffe alte. Intendo dire che anche un terapeuta bravo potrebbe fare tariffe medie, e se fa tariffe alte perché ha tante richieste (come quei colleghi che si fanno vedere in televisione, e che peraltro non è detto che siano sempre bravi) vi sono comunque mille modi per gestire questo problema (ad esempio usando una lista di attesa, oppure inviando i pazienti ad altri colleghi dando loro così subito un messaggio “terapeutico”: non è detto che i terapeuti che parlano in televisione debbano essere idealizzati come gli unici terapeuti capaci, ma ce ne sono tanti altri, e forse ancor più bravi).
Poi c’è un altro fenomeno, curioso e anche inquietante: a volte più uno alza le tariffe più vengono pazienti da lui, come se questa fosse un’operazione di mercato, allo stesso modo con cui nei supermercati vengono appositamente esposti prodotti quasi uguali ma con prezzi diversi allo scopo di coprire più fasce di clienti, nel senso che vi sono sempre persone ingenue che sono convinte che una cosa che costa di più sia migliore (si pensi a certi dentifrici, praticamente uguali ma con confezioni e prezzi diversi). Queste cose sono ben note, studiate dagli psicologi del lavoro che operano per le aziende. E un altro fenomeno che mi ha sempre colpito è che terapeuti poco bravi a volte hanno tanti pazienti, anche se fanno prezzi alti, perché indirettamente vi è una selezione della clientela, e precisamente in questo modo: per un certo tipo di pazienti, meno disturbati, vi è un alto turn-over, cioè rimangono poco in terapia perché presto ne sono insoddisfatti o capiscono che il terapeuta non è bravo, mentre altri pazienti, quelli che si “auto-selezionano”, sono pazienti molto disturbati, con forti tratti masochistici e bassa autostima, che rimangono legati a un terapeuta che li rende sempre più dipendenti da sé o che non di rado anche abusa di loro, impedendone la crescita e l’autonomia. Molti di questi pazienti idealizzano difensivamente il terapeuta per negare a tutti i costi la vera realtà di questa loro “terapia” (Langs, 1985). Tutti purtroppo abbiamo conosciuto colleghi come questi attraverso le storie che ci raccontano i pazienti se hanno avuto la forza di intraprendere una nuova terapia e si sono rivolti a noi.
Il motivo per cui alcuni terapeuti fanno tariffe molto alte rimane quindi un po’ un enigma. Se devo dire la mia impressione, a me sembra che il motivo potrebbe dipendere dal fatto che questi colleghi hanno forti tratti narcisistici (in rari casi non escluderei che si tratti anche di “narcisismo maligno”, caratterizzato ad esempio da un deficit di empatia). Per questo motivo, se un paziente mi chiede il nome di un terapeuta, scarto a priori i colleghi che fanno tariffe molto alte perché per me è un tratto patognomonico del fatto che non sono bravi. La mia sensazione è che questi spesso sono terapeuti che per confermare la loro bravura (che inconsciamente temono di non avere) devono avere prove esteriori, apparenti. A volte hanno bisogno di sentirsi superiori e di far sentire gli altri inferiori (cioè inconsciamente temono di essere inferiori, inadeguati), e spesso sono anche alla ricerca di conferme sociali o a effetto, di vario tipo: appartenenza a circoli o club di prestigio; iscrizione a società psicoanalitiche “ufficiali” viste come segno del loro valore, quindi come espressione di una tipica “cultura della sottomissione”; studi arredati in modo costoso, magari col lettino di Le Corbusier come status symbol; targhe appariscenti alla porta; biglietti da visita coi titoli più improbabili; collezione di diplomi di specialità appesi al muro, in modo inconsapevolmente kitsch; fondazione di associazioni o scuole che sono involontaria espressione di una sottocultura psicoterapeutica; bisogno di vestire sempre molto eleganti, magari di avere al polso un costosissimo e pesante orologio d’oro, di avere una macchina di lusso, di fare vacanze in posti esclusivi e così via. Non raramente sono “arricchiti” (nel senso di nouveau riche, o parvenu, come si suol dire), cioè persone che devono scontare eredità culturali di inferiorità che pesano come fardelli sulle loro spalle, fardelli che hanno offuscato i loro occhi per cui non vedono bene dietro le apparenze. In sostanza, credono al livello economico per il suo valore di facciata, confondendo quello che c’è fuori con quello che c’è dentro: pensano che i ricchi siano veramente ricchi e i poveri siano veramente poveri, mentre può essere vero il contrario, e cioè che certi ricchi siano “poveri” e certi poveri siano “ricchi”.

Bibliografia
Horwitz L. (1974). Clinical Prediction in Psychotherapy. New York: Aronson.
Langs R. (1985). Madness and Cure. Emerson, NJ: Newconcept Press (trad. it.: Follia e cura. Prefazione di Paolo Migone. Torino: Bollati Boringhieri, 1988).
Luborsky L. (1984). Principles of Psychoanalytic Psychotherapy. A Manual for Supportive-Expressive Treatment. New York: Basic Books (trad. it.: Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Manuale per il trattamento supportivo-espressivo. Torino: Bollati Boringhieri, 1989).
Migone P. (1988). La identificazione proiettiva. Il Ruolo Terapeutico, 49: 13-21. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt49ip88.htm. Vedi anche: Migone, 2010, cap. 7.
Migone P. (1996). La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXX, 2: 182-238. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm.
Migone P. (2001). La dicotomia tra clinica e ricerca in psicoterapia: due scienze separate? Il Ruolo Terapeutico, 88: 57-64. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt88-01.htm.
Migone P. (2005a). Terapeuti “brevi” o terapeuti “bravi”? Una critica al concetto di terapia breve. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 3: 347-370 (trad. spagnola: ¿Terapeutas “breves” o terapeutas “buenos”? Una crítica al concepto de terapia breve. Clinica e Investigación Relacional, 2010, 4, 1: 182-202. Edizione su Internet: http://www.psicoterapiarelacional.es/Portals/0/eJournalCeIR/V4N1_2010/10_PMigone_Terapeutas-breves-o-buenos_2010_CeIR_V4N1.pdf.
Migone P. (2005a). Risposta agli interventi di Osimo e di Bartoletti. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 4: 537-548.
Migone P. (2008). Psicoterapia e ricerca “scientifica”. Psicoterapia e Scienze Umane, 2009, XLIII, 1: 77-94.
Migone P. (2010). Terapia psicoanalitica. Seminari. Nuova edizione (I ediz.: 1995). Milano: FrancoAngeli. Scheda su Internet: http://www.psychomedia.it/pm-revs/books/migone1a.htm.
Migone P. (2011a). Sulla questione del pagamento delle sedute di psicoterapia non effettuate. Osservatorio Psicologia nei Media, 29-1-2011. Internet: http://www.osservatoriopsicologia.com/2011/01/29/pagamento-sedute-di-psicoterapia-non-effettuate-paolo-migone.
Migone P. (2011b). Vanno pagate dal paziente le sedute di psicoterapia non effettuate? Il Ruolo Terapeutico, 117: 71-82. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt117-11.htm.
Migone P. (2011c). Sulla “Terapia Breve Strategica” della scuola di Arezzo. Il Ruolo Terapeutico, 116: 59-73. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt116-11.htm.
Ogden T.H. (1979). On Projective Identification. International Journal of Psychoanalysis, 60: 357-373. Anche in: Ogden, 1982, cap. 2, pp. 11-37.
Ogden T.H. (1982). Projective Identification and Psychotherapeutic Technique. New York: Aronson (trad. it.: Identificazione proiettiva e tecnica psicoterapeutica. Roma: Astrolabio, 1994).

*Articolo già pubblicato su Osservatorio Psicologia nei Media

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